Non c’è giorno che non si ripeta la medesima scena in molti paesi e
città italiane, quasi alla stessa ora e con le medesime modalità.
Un uomo apre la porta di una palestra in attesa dei pochi o tanti che
la frequentano, rappresentanti di un’umanità variegata, afflitta da
mille problemi e aspettative diverse. All’interno il ring, gli attrezzi
che oscillano dal soffitto, fotografie e manifesti appesi alle pareti e
l’inconfondibile odore di fatica e sudore che nulla e nessuno riescono
mai ad eliminare del tutto ed è bene sia così. Talvolta il contesto è
persino con qualche pretesa d’eleganza, ma più spesso tutto è rimasto
quasi inalterato attraverso i decenni e non è detto che non consista in
ciò il fascinoso segreto di una palestra di boxe. I ragazzi si cambiano,
cominciano ad allenarsi e si rivolgono all’uomo chiamandolo “maestro”,
una parola che ormai nemmeno i bambini delle elementari adoperano più.
In latino significava il “più grande”. Poi col tempo venne usato per
indicare coloro che occupavano importanti cariche politiche o militari e
in seguito le persone abili in qualche arte o mestiere, sino a
diventare infine sinonimo del “sapiente” in grado d’insegnare al
prossimo. Quasi sempre ex-pugile, talvolta ricco di un glorioso passato,
sovente con trascorsi senza acuti e riflettori, il maestro ha fatto del
pugilato lo scopo e la malattia della propria esistenza. Quando la boxe
era ancora una cosa seria e popolare, tante persone anche di lustro si
davano di gomito per assumere incarichi di dirigenza nelle società
dilettantistiche e su-su sino ai massimi livelli.
Poi la discesa e con essa la necessità di riempire le caselle a cui
nessuno aspira più. Ed ecco il maestro ricorrere con crescente frequenza
alla moglie, ai fratelli, ai figli, agli amici prestanome pur di far
sopravvivere la palestra, pagando sia in termini di portafoglio che di
energie familiari una passione che gli procura, se non soddisfatta,
quasi crisi d’astinenza come se fosse tossicodipendente. Una realtà
commovente, ma pure un enorme limite dell’odierna Noble Art, che non può
aspirare ad una riscossa basandosi sull’affettuosa e paziente
disponibilità di amici e parenti.
Il maestro non ha orari e probabilmente anche quando svolge il
quotidiano lavoro “vero” per arrivare a fine mese, una parte del suo
cervello resta sempre là, sulla panca degli spogliatoi, a pensare
all’affitto da pagare, alle visite mediche, ai ragazzi che devono
combattere e a come organizzare l’ennesima trasferta in giro per
l’Italia. E’ come un cercatore d’oro…Fatica, ammattisce, urla, insulta,
incoraggia, fantastica, litiga, s’infuria e si commuove per un esercito
di ragazzi, ma soltanto pochissimi tecnici alla fine trovano la grossa
“pepita” rappresentata dal campione che può dare un senso alla vita,
mentre ai più non restano che le minuscole pagliuzze d’oro rappresentate
da titolini locali, destinati a perdersi nel vento in un batter
d’occhio.
Ma per quei suoi giovani allievi il maestro è spesso disposto a tutto,
da gesti d’incredibile nobiltà alle più squallide meschinità, infatti
ciò che lo “frega” è l’immensa passione alla quale non riesce a dare un
limite, nonostante a volte basti una ragazzina che fa gli occhi dolci,
una compagnia di amici “tiratardi”, un repentino amore per qualche altra
cosa o l’insofferenza a stringere i denti, perché anche il più
talentuoso dei suoi pulcini l’abbandoni dall’oggi al domani senza
neppure fornire spiegazioni e sussurrare “grazie”, vanificando in pochi
istanti anni di dedizione.
I pettegolezzi ai danni del collega al momento assente, le furibonde
liti sulla scaletta del ring per un verdetto ritenuto ingiusto, gli
anatemi lanciati ai “grandi” dirigenti seguiti da ossequiosi e servili
atteggiamenti verso gli stessi, nella remota ipotesi di un invito ad un
ritiro collegiale per un proprio atleta o all’assegnazione di un torneo
di modesto valore, le infinite diatribe per 10 euro in più o in meno per
un rimborso-spese, tutto ciò fa parte della leggendaria “miseria e
nobiltà” del mondo di numerosi “maestri” che, in verità, il meglio di se
stessi lo danno nella solitudine dello spogliatoio, 5 minuti prima e 5
dopo un match vinto o perso dal proprio pupillo, quando con gli occhi
negli occhi gioiscono o soffrono insieme.
Il maestro è così e così bisogna prenderlo, dal momento che è la seconda
colonna portante della boxe, accanto a quella rappresentata dal pugile
che è stato, è e sarà sempre la prima, in assenza della quale tutto
crollerebbe. Ama talmente i guantoni da diventare persino fragile,
manipolabile, ingenuo e disposto a trasformare, se pensa possa essere
utile, in un belato il ruggito che lo contraddistingue durante gli
allenamenti.
Invece, proprio come il pugile, basterebbe che prendesse coscienza vera e
profonda della propria indispensabilità per mettere sull’attenti tutto
il mondo, dal momento che solo lui e i suoi ragazzi permettono che la
leggenda della boxe sopravviva ancora, a dispetto delle mille e mille
ferite visibili e invisibili che le vengono inferte.
Maestro.
Un titolo che non viene da un diploma ingiallito appeso al muro, ma da
qualcosa che scaturisce da dentro e che nemmeno si può spiegare;
qualcosa che tormenta la vita, ma chissà come e perché la rende ancora
più meritevole d’essere vissuta.
Gualtiero Becchetti